Oltre 4 miliardi di persone sono oggi in lockdown, misura estrema per contenere la diffusione del virus COVID-19. Mai nella storia dell’Umanità è stata registrata una così diffusa restrizione di alcune libertà e diritti civili (libertà di movimento, di riunione per dirne due), dettata dall’urgenza inderogabile di tutelare la salute pubblica, e soprattutto quella delle persone più vulnerabili.

Va anche detto che tale situazione insorge in un contesto globale già caratterizzato da un aumento delle restrizioni degli spazi di agibilità e di diritti fondamentali per la partecipazione alla vita pubblica. Secondo il rapporto “People Power Under Attack” dell’organizzazione CIVICUS almeno il 40 per cento della popolazione mondiale vive in Paesi dove esistono livelli variabili di repressione, e solo il 3 per cento vive in paesi dove tutti i diritti fondamentali sono rispettati.

Oltre a portare alla luce questa contrapposizione tra diritto alla salute ed altri diritti umani fondamentali (giova ricordare che i diritti umani sono sempre indivisibili, ossia nessuno può essere trattato in maniera prioritaria rispetto agli altri) il COVID-19 sta disvelando una serie di ingiustizie strutturali che portano con sé violazioni o omissioni nella tutela di diritti umani, particolarmente quelli sociali ed economici.

Milioni di persone hanno perso il proprio lavoro, a causa della diffusione di precariato e lavoro sommerso, milioni rischiano la fame, o non possono avere accesso a cure adeguate a causa dell’indebolimento progressivo dei sistemi sanitari pubblici. Ovviamente questo aspetto della crisi, quello relativo agli impatti sui diritti umani, si far sentire in maniera diversa a seconda delle situazioni.

In Paesi dove già esisteva una situazione di autoritarismo può essere occasione per intensificare ancor di più la morsa repressiva. Sono quei paesi dove lo stato di eccezione è la regola. In altri, quelli “democratici”, la contrazione temporanea di alcuni diritti fondamentali rischia, se non sottoposta a strettissime condizioni, ed a monitoraggio e verifica trasparente e pubblica, di approfondire faglie che già si stavano aprendo nelle nostre società. Insomma, il rischio da scongiurare è di trasformare in regola lo stato di eccezione. Basti pensare alle legislazioni già adottate e restrittive della libertà di manifestare e di associazione, in nome della lotta al terrorismo, o le campagne di criminalizzazione della solidarietà con i migranti e di delegittimazione dei movimenti sociali e della società civile.

Per questo, è importante richiamare gli stati alle loro responsabilità, in quanto a rispetto dei diritti umani e ad assicurare, come richiamato anche dall’Alto Commissario dell’ONU sui Diritti Umani e dai Relatori Speciali ONU, che ogni misura presa per gestire e contrastare l’emergenza sia fondata sul rispetto e la promozione dei diritti umani. Il diritto internazionale prevede nel Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, la possibilità di invocare lo stato di emergenza e di derogare ad alcuni diritti in esso riconosciuti. Tale deroga però dev’essere, temporanea, proporzionata, giustificata e comunicata immediatamente alle Nazioni Unite assieme a tutte le informazioni relative alle misure prese, ed ai tempi previsti per la loro reversibilità. Un obbligo al quale anche il nostro paese è tenuto, a maggior ragione ora che l’Italia è membro temporaneo del Consiglio ONU per i Diritti Umani.

Questo il senso della lettera inviata oggi al Comitato Interministeriale per i Diritti Umani dalla rete In Difesa Di, di cui anche Greenpeace Italia fa parte, e firmata anche da oltre 20 organizzazioni italiane. In assenza di un’Autorità Nazionale Indipendente sui Diritti Umani in Italia, si chiede al CIDU di provvedere alla notifica al Segretario Generale ONU e a monitorare, come fatto in Francia ad esempio, le restrizioni delle libertà civili imposte dai vari decreti ed ordinanze, verificandone la compatibilità con gli impegni sanciti dal diritto internazionale.