Lo stile di vita per essere “nuovi abitanti” ci impone un cambiamento radicale non solo dei nostri comportamenti e abitudini ma del modo di vivere con e per la nostra società. Cosa compriamo, cosa mangiamo, come ci spostiamo, come abitiamo, in che modo ci attiviamo da cittadini interconnessi e mai come singoli consumatori, costituiscono i primi e i successivi passi da compiere per riuscire a salvare il Pianeta da una crisi climatica senza precedenti.

Il lifestyle 1.5 è un concetto ampio che lega ambiti estremamente diversi della nostra vita. Il numero, infatti, si riferisce all’aumento massimo della temperatura media globale, rispetto all’epoca preindustriale, stabilito dagli accordi Parigi per limitare i cambiamenti climatici

Perchè l’advertising non è amico del Pianeta (e di chi ci abita)

Un corpo perfetto, una famiglia perfetta, la vacanza perfetta, la casa perfetta. L’advertising è incredibilmente convincente nel prometterci uno stile di vita gratificante. A noi basta comprare e, prima o poi, quella perfezione arriverà. 

Se siete finiti su un blog di Greenpeace probabilmente state pensando: “Non io. Io non mi faccio influenzare dalla pubblicità. So controllarmi”. Lo spero, ma non so se riesco a credervi. Io, ad esempio, non riesco sempre a sfuggire alla manipolazione dell’advertising. 

Ho scoperto di recente che uno dei padri dell’advertising è Edward Bernays, nipote di Sigmund Freud. Appropriandosi delle teorie elaborate dallo zio, Bernays fu uno dei primi ad utilizzare la psicologia del subconscio al fine di influenzare l’opinione pubblica spingendola ad acquistare beni e prodotti.

E’ stato, ad esempio, l’ideatore della campagna pubblicitaria “Torches of freedom” (Fiaccole di Libertà), lo slogan utilizzato per incoraggiare le donne a fumare negli Stati Uniti facendo leva sul loro desiderio di ottenere l’uguaglianza con gli uomini. 

E’ passato quasi un secolo da quella campagna ma il meccanismo non è cambiato molto. 

La pubblicità commerciale continua ad essere prodotta per influenzare la nostra idea di necessità o successo ed è impossibile sottrarsi al suo effetto. Sui mezzi pubblici, sui cartelloni per le strade; è nella nostra visuale costantemente e – come mostrato da una ricerca dell’Università di Bath – non è necessario prestare attenzione cosciente al messaggio pubblicitario per esserne influenzati. Così spendiamo e consumiamo – a volte cose di cui non abbiamo davvero bisogno – per soddisfare i desideri a cui siamo indotti. 

E questo è un problema per il Pianeta. Perché consumiamo troppo e sfruttiamo le risorse naturali decisamente più velocemente del tempo loro necessario per rigenerarsi. 

Per questa ragione – nel corso dell’edizione romana del Make Something Week – in collaborazione con Scomodo e Spin Time labs, abbiamo creato l’iniziativa “Hack the Ads” per avviare una discussione creativa sul problema dell’advertising negli spazi pubblici nel nostro Paese.  

L’attività organizzata a Roma ha visto l’adesione di tantissimi artisti che hanno fornito materiale creativo a più di 200 persone che hanno creato manifesti di “advertising” riempiendoli di contenuti alternativi.

Nelle città gran parte degli spazi utilizzati per l’advertising commerciale sono pubblici. Noi cittadine e cittadini dovremmo avere voce in capitolo su come vengono utilizzati. 

Città come San Paolo in Brasile, Chennai in India o Grenoble in Francia hanno già bandito i cartelloni pubblicitari dai centri cittadini. Con l’esperimento italiano di Hack the Ads abbiamo voluto immaginare – per un giorno – Roma senza pubblicità commerciale.

Al suo posto opere d’arte, messaggi sociali e culturali, la ribellione alla plastica, la denuncia di modelli di business predatori per l’ambiente e speranza per le nostre vite ed il Pianeta.

Ciò a cui aspiriamo non dovrebbe essere dettato dalla pubblicità ma dalla volontà di mettere al sicuro le nuove generazioni (e le città in cui vivremo) dai cambiamenti climatici.

Foto di Emma Terlizzese/Scomodo