Prendiamo il vocabolario. Alla voce “Greenwashing” leggiamo: comportamenti o attività che fanno credere alle persone che un’azienda stia facendo, per la protezione dell’ambiente, più di quanto fa in realtà [traduzione dall’inglese].

Dopo anni di negazionismo climatico imperante (sapevamo tutto oltre 50 anni fa) la crisi climatica si manifesta in tutta la sua, purtroppo attesa, potenza. Chiamare “maltempo” fenomeni estremi sempre più frequenti è solo uno dei molti modi per negare l’evidenza.

Ma c’è di peggio.

Chi da tempo sapeva, adesso è impegnato in una lotta forsennata a coprire le sue responsabilità con iniziative che non è difficile interpretare come greenwashing, ovvero darsi una spennellata di verde per continuare a fare soldi a danno della collettività.

Un modo tra gli altri è puntare a tecnologie futuristiche, come la fusione nucleare. Nulla di male, per carità: la ricerca scientifica è importante. Ma questa tecnologia, se va bene, potremo metterla alla prova forse verso la metà del secolo. A quel punto, se non avremo azzerato le nostre emissioni di gas serra, saremmo in guai seri e rendere operativo il tokamak (l’impianto di fusione nucleare) sarebbe davvero l’ultimo dei problemi. Quei soldi sarebbero più utilmente spesi in programmi di decarbonizzazione totale (entro il 2040 in Europa, nel 2050 sul resto del Pianeta) di cui ancora non c’è traccia.

Basta leggersi il Piano Nazionale Integrato su Energia e Clima (PNIEC) italiano che a breve sarà confermato per capire che questo Paese, e le aziende energetiche che ci hanno reso incerto il futuro, se va bene decarbonizzeranno verso il 2070, o dopo. Ad esempio, l’ENI – che opera sotto il controllo pubblico – non ci ha ancora fatto vedere quando smetterà di bruciare combustibili fossili. Il mantra (dell’ENI e del PNIEC) è un altro: un futuro a tutto gas. Gas fossile, ovviamente.

Al gas “amico del clima” non crede nessuno. Ad esempio, sul sito di Rivista Energia, Elisa Giannelli  descrive chiaramente il problema “Gli obiettivi climatici di lungo termine dell’Unione Europea richiedono che l’Unione esca quasi interamente dal gas naturale, in maniera graduale ma costante, entro il 2050. L’analisi delle traiettorie previste dai PNEC di alcuni paesi di rilievo suggerisce che gli Stati membri stanno portando l’Unione verso una sovrabbondanza di gas naturale”. 

Tra questi Piani, spicca appunto quello italiano sui cui, rispetto all’enorme e pericoloso sbilanciamento sul gas fossile, anche la Commissione Europea ha avuto a che ridire. E non è l’unica. È di pochi giorni fa, ad esempio, la decisione dell’Advertising Standard Authority (l’equivalente inglese dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, la cosiddetta “antitrust” o AGCM) che ha diffidato Equinor (ex Statoil, azienda di Stato norvegese) dal confondere i consumatori affermando che il gas è una fonte “low carbon energy”.

Stesso destino per Shell che, in Olanda, ha avuto analoga reprimenda dall’Advertising Code Fundation che ha deciso che il messaggio secondo cui la tecnologia “gas to liquid” darebbe un contributo positivo all’ambiente. Che questo messaggio sia stato veicolato a un pubblico di bambini (durante il festival Generation Discover 2018) è una sinistra aggravante. Campagne analoghe nelle scuole sono segnalate in tutta Italia (a cura dei petrolieri, ci mancherebbe): che fine farà la promessa di studiare i cambiamenti climatici a scuola dall’anno prossimo?

Aggiungiamoci altre frottole come i miracoli dei biocarburanti prodotti a partire dalla deforestazione per produrre olio di palma e il quadro si allarga. La pubblicità di ENI del suo Diesel+ è stata puntualmente segnalata all’AGCM da Legambiente, Movimento Difesa del Cittadino e Transport & Environment. Vedremo se l’AGCM sarà coraggiosa quanto le autorità inglesi e olandesi.

Insomma, almeno a questo il greenwashing climatico serve. Ci fa capire chi fa sul serio e chi invece vuol continuare ad andare verso il baratro. Utile, no?