Officers and villagers clean the beach contaminated by crude oil that was spilled from state energy giant Pertamina’s Offshore North West Java (ONWJ) .

Qualcosa è andato storto sulla piattaforma YYA-1, nel campo oli Offshore North West Java (ONWJ), un paio di chilometri al largo delle coste del Distretto di Karawang, settore nord occidentale dell’Isola di Giava (Indonesia). Era il 12 luglio e una “anomalia” causa l’inizio di un dramma ambientale ancora in corso durante la perforazione di uno dei tre pozzi (gli altri due, sono stati fermati) del campo: l’avvio della produzione era attesa per settembre.

A dispetto delle lodi del governo indonesiano, la proprietà, l’industria statale Pertamina, ci mette un bel po’ a realizzare quel che sta succedendo: lo “stato di emergenza” viene deciso solo tre giorni dopo, quando la chiazza di petrolio è ormai prossima alle coste. Non sono bastati ventinove imbarcazioni (e chilometri di barriere galleggianti) per fronteggiare l’emergenza. Risultato: oltre 430 tonnellate di petrolio in mare, migliaia di pescatori nei guai, danni ambientali ancora da valutare come l’impatto sulla salute delle comunità colpite.

Pertamina ha detto che indennizzerà tutti (ma non ci sono né stime né criteri: chi verrà risarcito? Quanto?) ma intanto, come dichiarano i pescatorii pesci sono morti, oppure sono scappati via”. Il reddito giornaliero da circa 70 dollari è praticamente azzerato. Attivisti dell’Indonesian Forum for the Environment valutano che la chiazza ha coperto 45 kmq di mare, dalle Thousand Islands, 60 km a ovest del pozzo, fino a Cilamaya, 50 km a est.

Una bolla di gas lesiona la struttura

Tutto per colpa di una maledetta bolla di gas. Sembra infatti che una “anomala” sovrappressione di gas (praticamente metano) abbia lesionato la struttura e causato questo finimondo. Strano, perché ci continuano a dire che il gas, diversamente dal petrolio, non è pericoloso. O forse no, visto che anche la Deepwater Horizon è esplosa per un problema di sovrappressione: forse non è un caso se Pertamina ha assoldato gli specialisti di Boots & Coots, la stessa compagnia USA che ha affrontato il disastro del Golfo del Messico: se va bene, ci vorranno settimane prima di chiudere questo pozzo.

Che il gas sia praticamente innocuo per l’ambiente lo troviamo scritto ovunque, ma soprattutto nei documenti di Valutazione di Impatto Ambientale che servono ad autorizzare (anche) le prossime trivelle nazionali (come il progetto Offshore Ibleo di ENI, ad esempio). Ma c’è di più: il gas ce lo spacciano pure come “amico del clima” a dispetto di evidenze ormai clamorosamente accertate. Secondo Transport & Environment “il gas fossile utilizzato nei trasporti non presenta benefici climatici significativi rispetto ai carburanti derivati dal petrolio, mentre includendo gli effetti delle perdite di metano nell’upstream, i benefici si annullano in quasi tutti i casi”.

Evidenze ignorate dal nostro governo che ha confezionato un Piano Nazionale Energia e Clima (PNIEC) così fenomenalmente pieno di gas che lo ha notato (criticandolo) pure la Commissione Europea. Dev’essere che ormai ENI, la compagnia di Stato, è ormai leader a livello mondiale nell’estrazione di gas: secondo un recente rapporto di Legambiente, ENI “… nel 2018, mentre in tutto il mondo si parla di cambiamenti climatici, di obiettivi di decarbonizzazione, di come sviluppare urgenti azioni di adattamento e mitigazione al surriscaldamento globale, stabilisce un nuovo record di produzione con 1,9 milioni di barili/giorno, la più alta mai registrata dalla compagnia …”.

D’altra parte, questo non è l’unico mistero della strategia di “sostenibilità” di ENI che passa pure per la produzione di biocarburanti. Tutto, pur di non passare al terribile motore elettrico, possibilmente alimentato da energie rinnovabili. Peccato che i biocarburanti si producano dall’olio di palma. Un paio di raffinerie qui in Italia (Gela e Falconara) useranno ogni anno più di un milione di tonnellate di olio di palma per fare bio-carburanti “verdi” che, notoriamente, hanno un effetto sul clima che può essere anche peggiore dei “normali” carburanti fossili (se si contano anche gli effetti collaterali della deforestazione e del cambio di uso dei suoli).

E, non contenta di realizzare in Italia queste raffinerie a “olio di palma”, ENI è già pronta a esportarle in Indonesia (ma l’olio di palma non era un prodotto alimentare importante?). E con chi ha siglato la sua partnership ENI? Ovvio, con l’affidabilissima Pertamina. Auguri.