Le immagini di questi giorni dei “fiumi di latte” nelle strade di tanti paesi della Sardegna sono un pugno nello stomaco per tanti motivi. Impressiona vedere dispersa una risorsa così preziosa, impressiona la rabbia dei pastori, impressiona anche la varietà di opinioni che si stanno esprimendo su questa vicenda.

Il punto centrale non è tanto identificare i “colpevoli” di questa specifica situazione, ma guardare il contesto che è alla base di questa e altre crisi del settore.

La crisi del latte sardo, pur con le sue peculiarità, ha fra le ragioni scatenanti sia il più conosciuto dei meccanismi di mercato, ovvero l’eterna giostra fra domanda e offerta, con i prezzi che crollano, e l’anello più fragile della catena rischia di spezzarsi, sia un meccanismo di filiera che nel cammino del prezzo dal produttore al consumatore troppo spesso non è equo nei confronti degli attori più deboli – come i produttori – e non garantisce loro non solo una remunerazione adeguata, ma neppure di coprire i costi di produzione.

Se il meccanismo è ormai noto, la domanda è: perchè in questi casi non si interviene per tempo, e a chi spetterebbe farlo?

Con l’istituzione dell’Unione Europea ci si è posti più o meno la stessa domanda, individuando una risposta nella Politica Agricola Comunitaria (PAC), che tra i suoi obiettivi persegue proprio quello di “assicurare un tenore di vita equo alla popolazione agricola e stabilizzare i mercati[1].

Le proteste dei pastori sardi sono il sintomo evidente del fatto che qualcosa non funziona nella gestione delle filiere e nel meccanismo dei fondi della PAC.

Troppo spesso assistiamo a filiere non eque che non sono in grado di garantire ai produttori non solo una remunerazione adeguata, ma neppure di coprire i costi di produzione. La produzione zootecnica, inoltre, è sempre più concentrata in grandi aziende, mentre i piccoli produttori scompaiono. Solo in Italia negli ultimi 12 anni hanno chiuso oltre 320 mila aziende (un calo del 38%), ma il numero delle aziende agricole “grandi” e “molto grandi” è aumentato complessivamente del 44%.

Uscendo dal contesto del solo latte di pecora, ad aumentare è stata anche la produzione nel settore lattiero-caseario del latte vaccino: da 150 milioni di tonnellate di latte vaccino nel 2000 a 165,6 milioni di tonnellate nel 2017. Nel settore la fine delle quote latte nel 2015 ha portato alcune delle più piccole aziende agricole ad abbandonare l’attività mentre le più grandi hanno ampliato in modo significativo il numero dei capi tra il 2014 e il 2015;[3] basti pensare che in Italia la produzione di latte e prodotti lattiero-caseari è concentrata per l’80% in aziende grandi e molto grandi.[4]

Cosa ha determinato questa tendenza?

Numerose riforme della PAC, per affrontare le distorsioni del mercato, avevano inserito meccanismi di sostegno del reddito. Negli anni ’90 i pagamenti erano ancora abbinati alla produzione, compensando gli agricoltori per prezzi di mercato più bassi. A partire dal 2003  la maggior parte dei fondi della PAC (circa il 90%) è diventata sempre più scollegata dalla produzione e collegata unicamente all’estensione di terra coltivata. Un meccanismo che evidentemente non premia i piccoli allevatori.

I dati contenuti nell’ultimo report, insieme alle evidenze sempre più numerose del mondo scientifico sugli impatti ambientali della produzione intensiva di carne e, in ultimo, la dolorosa vicenda del latte sardo, suggeriscono tutte la stessa cosa: è necessario un cambio di rotta nella PAC, che veda il flusso dei sussidi agricoli spostarsi dalla grande produzione intensiva alle piccole attività che adottano sistemi sostenibili e producono qualità.

I fondi pubblici della PAC devono essere invece spesi per sostenere agricoltori e allevatori in direzione di una transizione necessaria verso una produzione basata su metodi ecologici, in modo da ridurre la quantità complessiva di animali allevati, aumentare la qualità, preservare l’ambiente e garantire il sostentamento di agricoltori e comunità rurali, e non solo di pochi attori industriali.

Questo chiede la nostra campagna Il Pianeta nel Piatto e questo chiediamo ai parlamentari europei che si esprimeranno sulla “nuova” PAC domani, 14 febbraio in Commissione Ambiente del Parlamento Ue e il 6/7 marzo in Commissione Agricoltura.

Affinché la futura Politica Agricola Comune sia “nuova” davvero.

 

[1] Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, art.39. https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex%3A12012E%2FTXT

[2] Uno dei modi in cui le aziende agricole sono classificate è per dimensione economica. Nell’Ue l’indice utilizzato è lo Standard Output (Produzione Standard): il valore monetario medio della produzione agricola per ettaro o per capo di bestiame. Il totale degli standard output per il n° di capi allevati fornisce una misura della dimensione economica di un allevamento. Le categorie utilizzate sono le seguenti: aziende molto piccole S.O. inferiore a €2.000; “piccole” €2.000 – €8.000; medie €8.000 – €25.000; medio-grandi €25.000 – €100.000; grandi €100.000 – >€500.000; molto grandi, oltre €500,000. https://ec.europa.eu/eurostat/web/agriculture/so-coefficients

[3] Eurostat. Agricultural Production – Animals, data from September 2017. Available at https://ec.europa.eu/eurostat/statisticsexplained/index.php?title=Agricultural_production_-_animals

[4]  FADN – Farm Accountancy Data Network http://ec.europa.eu/agriculture/rica/. Il FADN è uno strumento per valutare il reddito delle aziende agricole e l’impatto della PAC. Raccoglie annualmente le stime condotte dagli Stati membri dell’Unione europea ed è l’unica fonte uniformata di dati microeconomici del settore agricolo a livello Eu. Il campione annuale copre circa 80.000 aziende, che rappresentano circa 5.000.000 imprese agricole nell’Ue e coprono circa il 90% della superficie agricola utilizzata (SAU). Mira a fornire dati rappresentativi in base a tre criteri: regione, dimensione economica e tipo di azienda.

 

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