Il disegno di legge sulla sicurezza, approvato dalla Camera il 18 settembre, introduce diverse misure mirate a potenziare la repressione, inasprendo le pene già esistenti e istituendo nuovi reati legati all’ordine pubblico.

Il decreto non punisce solo gli ambientalisti

Tra le principali novità, l’introduzione di pene più severe per chi mette in atto forme di resistenza passiva in carcere e nei centri per migranti, con condanne previste fino a cinque anni. Questa “prima volta” nella repressione della resistenza passiva rischia di divenire un precedente che permetterà, in futuro, di punire ogni forma di disobbedienza a qualunque ordine ed in qualunque ambito (così come il Daspo, nato negli stadi per reprimere gli ultras, è stato poi esteso agli ambiti urbani ed è oggi uno strumento di repressione amministrativa buono per tutte le forme di disagio e/o di dissenso).

Il nuovo ddl Sicurezza rende poi facoltativo, anziché obbligatorio, il rinvio della pena per donne incinte o con figli sotto l’anno, facilitando così la loro incarcerazione. Nonostante il governo affermi che questa misura sia mirata a colpire le “borseggiatrici rom” accusate di sfruttare la maternità per evitare il carcere, la realtà è che queste donne rappresentano solo una piccola parte del problema, mentre la norma compromette la tutela dei minori

Vengono anche inasprite le pene per i danni di imbrattamento e danneggiamento di edifici pubblici durante manifestazioni e inserite aggravanti per chi protesta contro opere pubbliche strategiche come il Ponte sullo Stretto o la Tav.

A ciò si lega un’ulteriore novità introdotta dal provvedimento, che trasforma il blocco stradale e ferroviario, anche quello pacifico, da semplice illecito amministrativo a vero e proprio reato penale: d’ora in poi, chi vi prenderà parte, rischierà fino a un mese di reclusione e una multa fino a 300 euro. Più severe le pene laddove queste azioni avvengano durante manifestazioni collettive, caso in cui il periodo di reclusione può essere esteso a due anni.

La resistenza è arrivata nelle piazze

La reazione delle associazioni sindacali, dei gruppi ambientalisti e della società civile ma anche di giuristi e magistrati non si è fatta attendere. Molti di loro, infatti, negli scorsi giorni si sono mobilitati prendendo parte alle manifestazioni di denuncia contro il decreto, definendolo un chiaro esempio di populismo penale, basato sull’istituzione di reati ad hoc che non solo potrebbero essere giudicati incostituzionali ma che offrono soluzioni penali a problematiche tipicamente sociali

La resistenza al ddl è scesa in piazza: lo scorso 25 settembre in tutta Italia si sono tenuti numerosi presidi per opporsi a un provvedimento ritenuto una minaccia per la democrazia. Tra le manifestazioni più partecipate, quella in Piazza d’Italia a Roma, accompagnata da un presidio organizzato da Cgil e Uil davanti al Senato, a cui ha aderito anche Greenpeace.

Criminalizzazione del dissenso: “un ddl liberticida”

Il rischio è che le persone si sentano più intimidite, anziché più sicure. E che ad aumentare non sia la sicurezza, ma la repressione. Non a caso le opposizioni hanno ribattezzato questo provvedimento “ddl liberticida”.

Le nuove aggravanti penali introdotte confermano la volontà del governo di criminalizzare il diritto a manifestare, e si inseriscono nella scia di decreti varati in passato, come il ddl Caivano e il “decreto rave”, che con questo condividevano il tentativo del governo di reprimere il dissenso in ogni sua forma con strumenti punitivi (alcuni giuristi hanno parlato per questo di un approccio basato sul “panpenalismo”).

La tendenza allintimidazione e alla punizione penale era già emersa chiaramente quando, lo scorso marzo, il tribunale di Roma aveva confermato la condanna a otto mesi di reclusione per i tre attivisti e attiviste di Ultima Generazione che il 2 gennaio 2023 avevano imbrattato con vernice lavabile la sede del Senato, chiedendo il pagamento di una multa preliminare da 60mila euro.

Il futuro della disobbedienza civile è a rischio

A destare più inquietudine tra i reati introdotti dal ddl sicurezza è quello che punisce chiunque pratichi forme di resistenza passiva nelle carceri o nei CPR, i centri di permanenza per i rimpatri dove vengono detenuti i migranti. Questa novità nella repressione del dissenso, (che prevede pene fino a 20 anni)  potrebbe creare un pericoloso precedente, aprendo la strada alla penalizzazione di qualsiasi forma di disobbedienza civile, indipendentemente dal contesto. Si è parlato, per questo, di norme “anti gandhi”.

A pagare il conto, come al solito, sono le categorie meno tutelate

Il pericolo insito in questo decreto, non ancora approvato in via definitiva e comunque, in potenza, soggetto al vaglio della Corte Costituzionale, va ben oltre il contenuto delle singole disposizioni: contribuisce a normalizzare una retorica che legittima la violenza contro categorie già marginalizzate o sempre più esposte, come donne, migranti, detenuti e attivisti.

Davanti a questo tentativo autoritario di soffocare le voci, spesso già vulnerabili, di chi esprime dissenso, non possiamo rimanere in silenzio. In democrazia, il dissenso e la protesta pacifica devono essere strumenti legittimi di espressione, soprattutto per chi, come gli attivisti ambientali, lotta per la giustizia climatica e sociale a livello globale.