Abbiamo chiesto a Vittorio Guberti, veterinario dell’ISPRA, qual è la situazione della peste suina africana, una malattia virale che, sebbene innocua per gli esseri umani, si sta diffondendo anche in Italia facendo strage di i cinghiali e suini


A quasi due anni dalla sua prima comparsa in Piemonte, la peste suina africana (PSA) è arrivata anche negli allevamenti intensivi della Pianura Padana, dove sono stati già abbattuti circa 40.000 suini. Cosa è successo in questi mesi? Come si è diffuso il virus in Italia? Cosa possiamo aspettarci adesso? Abbiamo rivolto queste domande al dottor Vittorio Guberti, veterinario dell’ISPRA e uno dei massimi esperti europei sul tema.


Dottor Guberti, partiamo dalle basi: cos’è la peste suina africana?

La PSA è un virus delle zecche, originario del continente africano, in grado di infettare solo i suidi selvatici come il facocero, che però non si ammala. Quando gli europei portarono i maiali nelle colonie si è osservato che il virus poteva infettare e uccidere il suino domestico e così si è originata la malattia che oggi chiamiamo peste suina africana. Il virus della peste suina africana è un virus molto resistente nell’ambiente, difficile da eradicare.

Come si è diffuso il virus in Italia?

La prima diagnosi è stata fatta il 7 gennaio 2022 sulla carcassa di un cinghiale, nelle montagne tra Piemonte e Liguria ma, a giudicare dalla distanza geografica tra i primi casi, il virus è stato diagnosticato solo diversi mesi dopo il suo arrivo: probabilmente era in zona già da agosto 2021. Ci siamo immediatamente trovati di fronte a una vasta zona infetta, estesa su centinaia di chilometri quadrati.

Non sappiamo come sia arrivato: la sua elevatissima persistenza nei residui alimentari, nell’ambiente, soprattutto a basse temperature, ne rende molto facile il trasporto anche a grandi distanze attraverso molteplici mezzi, come ad esempio camion che si sono contaminati nei Paesi in cui circola il virus, derrate alimentari infette, rifiuti delle navi e degli aerei; in sostanza è molto frequente il trasporto involontario del virus a grandi distanze dovuto alle diverse attività umane.

Da quella prima diagnosi, in circa 18 mesi, l’area infetta si è quadruplicata e il virus continua a diffondersi. È importante sottolineare che una volta che il virus ha avuto così tanto tempo per diffondersi, non sono più solo gli animali ad essere infetti, ma l’intero ambiente: se il bosco è infetto, le persone che vi entrano possono facilmente assumere il ruolo di vettore passivo contaminandosi in modo accidentale e diffondendo ulteriormente il virus anche nelle aree antropizzate, ad esempio negli allevamenti intensivi.

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Quindi il virus è entrato negli allevamenti attraverso il vettore “essere umano”?

Sì, al 99% è sempre l’essere umano a portare la peste suina negli allevamenti intensivi, non c’è contatto diretto tra un maiale allevato intensivamente e un cinghiale; è un contatto impossibile.

Ci sono rischi per la salute pubblica?

Il virus della PSA non ha alcuna capacità di entrare nelle cellule umane, neanche se si mangia carne infetta, quindi i rischi per l’essere umano sono nulli. È importante sottolineare che il DNA del virus della peste suina è estremamente stabile e questa caratteristica non consente alcun salto di specie, come invece avviene per l’influenza aviaria o per il Covid-19.

Quali i rischi per gli animali?

Solo i suini possono essere infettati. Quando questo avviene, il suino infetto muore nel 95-99% dei casi, dopo atroci sofferenze e, data l’altissima contagiosità, in una popolazione infetta muore circa l’80% degli animali, con gravi conseguenze anche sulla biodiversità.

Quali sono le conseguenze sulla biodiversità?

Una mortalità così alta è drammatica in particolare per le specie di suidi in via di estinzione, come alcune specie asiatiche (cinghiale barbato, maiale pigmeo, ecc.) che già contano popolazioni molto ridotte, ma anche per i grandi carnivori che hanno diete basate sui suidi selvatici. Pensiamo ad esempio al leopardo dell’Amur o alla tigre siberiana: se la peste suina colpisce le popolazioni di suidi che sono le loro principali prede, anche la sopravvivenza di questi carnivori è in pericolo, così come interi ecosistemi basati sull’equilibrio di quelle catene alimentari.

Ma si poteva fare qualcosa di più per frenare l’avanzata del virus?

Sicuramente sì: le misure da applicare per l’eradicazione sono ben definite dalla Commissione Europea e dall’Organizzazione Mondiale della Salute Animale (WOAH), sulla base delle esperienze maturate in Eurasia.

La prima misura da attuare è sospendere immediatamente le attività nelle aree infette, cosa che non è avvenuta tempestivamente nei boschi di Liguria e Piemonte dove sono stati registrati i primi casi. Quando è ripartita la stagione venatoria si è addirittura lasciata la caccia aperta nelle zone infette o limitrofe: basta qualche giorno di ritardo nella promulgazione dei nuovi confini di una zona infetta per far sì che nel bosco proseguano le consuete attività, compresa quella venatoria, che aumenta la mobilità dei cinghiali spingendoli verso nuove aree ancora da infettare.

Altra misura fondamentale è quella di recintare l’area infetta, in tempi più brevi possibile, per controllare l’infezione all’interno. Anche questo è avvenuto in modo incompleto oppure quando il virus era già all’esterno dell’area. Di fatto il virus non è stato controllato: siamo stati a guardare la sua diffusione che galoppava veloce.

allevamenti intensivi

Cosa dobbiamo aspettarci adesso che il virus è arrivato negli allevamenti intensivi della Pianura Padana?

Ho molta fiducia nella capacità dei servizi di veterinari di lavorare in emergenza: negli allevamenti intensivi siamo in grado di estinguere il virus, evitando che si propaghi ad altre zone. Il costo della gestione della PSA negli allevamenti però è altissimo: siamo già a circa 40.000 suini abbattuti, con costi diretti di circa 3 milioni di euro solo per i primi nove allevamenti infetti o sospetti, senza contare tutte le conseguenze sociali ed economiche che questo comporta.

L’alta concentrazione di allevamenti suinicoli in questo territorio ha un impatto sulle dinamiche del contagio?

La trasmissione di questo tipo di malattia in termini epidemiologici viene definita “per vicinanza”: se un allevamento è infetto, prima o poi il virus arriva anche in quello vicino, al punto che la Commissione Europea indica una distanza di 3-7 chilometri entro la quale applicare le misure di controllo ed eradicazione, compresi gli abbattimenti preventivi negli allevamenti in cui il virus non è stato ancora registrato.

Gli abbattimenti preventivi vengono effettuati esclusivamente nelle aree densamente popolate di allevamenti e animali, mentre questa misura non viene applicata per popolazioni a bassa densità. Una delle proposte per limitare i danni in caso di epidemie è la creazione di una distanza di sicurezza tra un allevamento e l’altro, riducendo il numero di allevamenti per chilometro quadrato.

Come avviene questo effetto domino da un allevamento infetto a quelli limitrofi?

Quando il virus della PSA arriva in un allevamento intensivo, dove sono concentrati migliaia di suini, non viene identificato subito, perché è nascosto dalla mortalità standard di questo tipo di allevamenti, in cui quasi ogni giorno degli animali muoiono per cause varie. Questo fa sì che passino giorni, a volte settimane, prima che la mortalità indotta dalla peste suina assuma dimensioni importanti e tali da essere sospettata dagli allevatori e destare l’allarme. Nel frattempo ci saranno state decine di occasioni per il virus di “evadere” dall’allevamento infetto: i camion che entrano ed escono per portare mangimi e materiali, le auto del personale, i materiali di scarto, ecc.

Nella fase di diagnosi l’elevato numero di animali allevati in un singolo stabilimento è parte del problema?

È indiscutibile che sia più difficile diagnosticare la PSA in un allevamento di grandi dimensioni piuttosto che in un allevamento rurale, dove l’allevatore si accorge subito se un animale è malato. Il problema è che non possono essere solo gli allevamenti rurali a sostenere la domanda di carne suina proveniente dal mercato. Ma qui si entra in un tema più ampio, che riguarda l’intero sistema agroalimentare. Dal punto di vista tecnico, però, questa differenza nel diagnosticare la malattia tra due modelli di allevamento così diversi è innegabile.

Cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi mesi?

L’Italia ha cambiato strategia rispetto al piano di emergenza che era stato preparato: adesso si punta a ottenere l’eradicazione del virus a bassi costi e principalmente attraverso abbattimenti di massa dei cinghiali: il piano parla di 620.000 capi da abbattere.

Il problema è che il virus continua a circolare anche a densità bassissime, per cui abbattere il 50% della popolazione di cinghiali (operazione non semplice da fare a basso costo), non significa eradicare automaticamente il virus. Nei Paesi in cui si è scelta, questa strada non ha mai funzionato: speriamo che l’Italia sia il primo caso in cui ciò avviene. Il rischio è che l’area infetta si allarghi ancora di più, com’è successo ad esempio in Polonia con un piano simile a questo. Finché il virus circola nell’ambiente, rimane il rischio che si verifichino altri focolai negli allevamenti di suini, con nuovi abbattimenti e connessi costi economici, etici e sociali.

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