Quanto c’è di vero nelle iniziative di sostenibilità dei marchi come Benetton, Calzedonia, Intimissimi, H&M e Zara.

Sempre più spesso le aziende del fast fashion dichiarano nelle etichette che i loro capi d’abbigliamento sono prodotti in modo sostenibile, promuovendo la loro presunta sostenibilità e il rispetto di migliori condizioni di lavoro. Molti prodotti sono accompagnati da termini come “eco” “green” ”cares” e da etichette che richiamano alla circolarità. Ma cosa c’è di vero in questi slogan?

Purtroppo nella maggior parte dei casi si tratta solo di greenwashing! A rivelarlo è l’ultima indagine di Greenpeace Germania, realizzata a 10 anni dal disastro di Rana Plaza in Bangladesh, in cui hanno perso la vita più di 1000 persone, svelando al mondo cosa si cela dietro la moda a basso costo.

Il rischio di confondere i consumatori 

L’indagine ha controllato la veridicità delle informazioni riportate nelle etichette dei capi d’abbigliamento di 29 aziende (H&M, Zara, Benetton, Mango etc.) che aderiscono alla campagna Detox e quelle di marchi internazionali come Decathlon e Calzedonia/Intimissimi.

Sono emersi alcuni tratti comuni in molte delle iniziative esaminate, tra cui:

  • il rischio di confondere i consumatori con etichette presentate come certificate ma che in realtà derivano da programmi di sostenibilità aziendali;
  • la mancanza della verifica di terze parti o della valutazione del rispetto dei migliori standard ambientali e sociali;
  • l’assenza di meccanismi di tracciabilità delle filiere
  • la falsa narrazione sulla circolarità che si basa, ad esempio, sull’approvvigionamento di poliestere riciclato proveniente da altri settori industriali invece che da abiti usati; 
  • il ricorso massiccio a termini fuorvianti come “sostenibile” o “responsabile” associato ai “materiali” che, di fatto, registrano performances ambientali solo leggermente migliori rispetto alle fibre vergini o convenzionali; 
  • il continuo ricorso a mix di fibre come il “Polycotton o Policotone” spesso presentato come più ecologico; 
  • la scelta di affidarsi all’indice Higg per valutare la sostenibilità dei materiali, uno strumento la cui parzialità è nota;
  •  il miglioramento di un singolo aspetto/parametro della produzione.

I marchi si vendono quindi per quello che non sono, ed evitano di pubblicare informazioni che permettano di valutare l’effettivo impatto ambientale. Ciò genera confusione nelle persone, spinte a credere di acquistare prodotti sostenibili ma che in realtà non lo sono. 

Le iniziative green di Benetton e Calzedonia/Intimissimi

Tra le iniziative analizzate, solo quelle di COOP “Naturaline” e Vaude “Green Shape” hanno ottenuto buoni risultati, al contrario di quelle di tutte le altre aziende esaminate.

Benetton e Calzedonia/Intimissimi, i marchi italiani presi in esame nell’indagine, non ottengono buoni risultati. Il primo deve fornire molte più informazioni per riuscire realmente a “produrre meno e meglio”, oltre a dover rivedere la propria definizione di “cotone sostenibile”. Calzedonia invece deve passare dalle parole ai fatti rendendo veritiere le dichiarazioni sulla tracciabilità delle filiere e adottare un sistema che permetta di gestire le sostanze chimiche pericolose.

Il fast fashion non è sostenibile

Mentre si pubblicizza una sostenibilità inesistente, in realtà sono in costante aumento gli abiti fatti di plastica usa e getta derivante dal petrolio, non riciclabili e per lo più prodotti in condizioni di lavoro inaccettabili. L’industria della moda continua a sfruttare i lavoratori e a generare enormi impatti ambientali.

Il fast fashion non può essere definito sostenibile. Le aziende hanno il dovere di promuovere una vera economia circolare che riduca gli impatti sociali e ambientali. Abbandonare i vestiti usa e getta deve essere la priorità: solo così eviteremo una moda basata sul greenwashing.

Chiedi insieme a noi un’industria tessile a misura di pianeta!