L’idea di proteggere l’immensità degli oceani con grandi aree protette risale agli inizi degli anni Duemila. Scienziati e ambientalisti avevano capito che per una vera protezione del mare non potevano bastare piccole aree protette costiere. Certo importanti, ma l’immensità dell’oceano ci pone sfide di ben altra portata. Il mare è il più grande ecosistema del Pianeta e quello meno conosciuto. La sua vastità è difficile da immaginare, come la sua importanza per regolare il clima, nella produzione di risorse fondamentali per centinaia di milioni di persone e per una biodiversità che cominciamo da poco a comprendere.

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Persino il nostro modesto Mediterraneo, pari a meno dell’1% della superficie dei mari, ha le sue sfide e i suoi tesori da salvare. Il primo rapporto di Greenpeace con la richiesta di istituire una rete di aree marine protette in alto mare nel Mediterraneo risale al 2006. A partire da quella prima ipotesi abbiamo contribuito allo sviluppo di una proposta per le aree marine protette in alto mare che è stata discussa alla Convenzione della Biodiversità (CBD) nel 2009 e che ha portato, in uno sforzo corale della comunità scientifica, ambientalisti e rappresentanti delle Parti della CBD a realizzare una grande mappatura degli oceani del Pianeta che individua le aree da privilegiare per iniziative di tutela: Ecologically or Biologically Important Marine Areas (EBSAS). Ma è stato solo nel dicembre 2022 che le Parti della CBD hanno concordato di proteggere entro il 2030 il 30% degli oceani (il cosiddetto 30×30): un obiettivo ambizioso ma ancora fragile.

C’è, come sempre, il nodo dei finanziamenti (i soldi per le armi si trovano sempre, per proteggere il nostro futuro è invece più difficile), e un’altra questione non secondaria. Gli oceani si estendono in gran parte ben oltre i limiti della giurisdizione degli Stati. Se le acque territoriali normalmente (non sempre) arrivano fino a 12 miglia nautiche (circa 24 km) dalla costa, le norme internazionali permettono agli Stati costieri di reclamare l’uso esclusivo delle risorse del mare fino a 200 miglia nautiche dalla costa: è quella che si chiama Zona Economica Esclusiva (ZEE). Dopo il nulla: terra di nessuno dove tutto (o quasi) è ammesso. Come si può proteggere il 30% degli oceani senza tutelare questa immensità che copre quasi il 65% dei mari? Anche di questo si è discusso per decenni, finché nel dicembre 2017 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la Risoluzione 72/249 ha dato avvio a un negoziato per un Trattato Globale sugli Oceani. Che si è concluso lo scorso 4 marzo 2023.

In un’epoca di conflitti e polarizzazione, avere ottenuto un accordo di questa portata è decisamente una buona notizia: non era scontato. Gli interessi in gioco sono tantissimi e vedremo come sarà applicato il Trattato che entrerà in vigore solo dopo che 60 Paesi lo avranno ratificato: già questa sarà una corsa contro il tempo, se vogliamo fare sul serio con il 30×30. 

Cosa prevede il Trattato

Dei molti punti oggetto del negoziato, due sono stati i più ostici. In primo luogo, la Conferenza delle Parti (CoP) del Trattato potrà istituire Santuari in acque internazionali. Secondo alcuni Paesi, questo compito doveva spettare ai vari organismi internazionali che oggi regolano (o cercano di regolare) le attività di pesca negli oceani: i risultati a dire il vero non sono granché, se il 90% delle popolazioni ittiche gestite è al limite, o oltre il limite, della sostenibilità. 

L’altro punto dibattuto fino all’ultimo, e che ha rischiato di far fallire l’accordo, è stato quello della ripartizione dei benefici delle risorse genetiche del mare. Che già oggi generano profitti miliardari. Ad esempio, Halaven, un farmaco anticancro che genera profitti dell’ordine di 300 milioni di dollari l’anno, proviene da una spugna. Anche il remdesivir, il primo farmaco approvato contro il COVID-19, proviene da una spugna. Naturalmente sono le grandi multinazionali dei Paesi sviluppati a possedere le tecnologie (e i soldi) per accedere a queste risorse e produrre farmaci o altre sostanze da immettere sul mercato. Senza un accordo equo, la gran parte dei Paesi non avrebbe visto un centesimo del fiume di danaro che potenzialmente può derivare da queste ricerche. L’accordo raggiunto nel Trattato prevede invece la condivisione dei benefici (economici e non) e la creazione di un fondo specifico che permette di godere equamente di risorse che sono definite “patrimonio comune dell’umanità”. 

Cosa cambia per l’Italia

Adesso il Trattato dovrà essere siglato e quindi si aprirà il processo di ratifica. Il lavoro da fare non manca, anche perché gli Stati, compresa ovviamente l’Italia, dovranno tutelare anche il 30% delle loro acque territoriali: siamo ben lontani da questo obiettivo. Teoricamente (dati 2021) le aree marine italiane che ricadono nella Rete Natura 2000 coprono poco più del 13% del nostro “territorio marino”. Ma le aree davvero protette sono una porzione irrisoria, dell’ordine dello 0,01%. Il caso più eclatante è quello del Santuario dei cetacei del Mar Ligure: 87.500 km2 protetti solo sulla carta: a parte il divieto di competizioni offshore, nel Santuario valgono le stesse regole che nel resto del mare. Da tempo, Greenpeace avanza proposte per una reale tutela del Santuario, ma la strada, è ancora lunga. È ora di proteggerlo davvero, il nostro mare!

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