Chicken Fattening in North Germany.
Chicken farm in Northern Germany. 30,000 male and female chickens of the breed “Ross” are fattened in this north German farm within 35 days to a weight of 2kg.

C’è un tema che in questa campagna elettorale rimane sullo sfondo, ma che è una questione vitale, nel vero senso della parola. Si tratta del cibo: cosa mangiamo, come e dove lo produciamo e a quale costo.

L’aumento dei prezzi delle materie prime, perché mangiare costa di più

Chi tra pochi giorni andrà a votare sa benissimo che i prezzi di alcuni alimenti sono andati alle stelle in questi ultimi mesi, e indicarne le cause ci spinge ad affrontare la complessità del nostro sistema agroalimentare.

Forse è per questo che nei dibattiti elettorali se ne parla poco e male, perchè farlo in modo serio, nell’interesse dei consumatori, dei piccoli produttori e dell’ambiente (senza il quale non esiste agricoltura possibile), significa promuovere un cambiamento strutturale in un sistema costruito su misura per imprese grandi e intensive, in cui i gruppi della grande distribuzione organizzata dettano le regole e in cui il commercio internazionale di materie prime alimentari si intreccia con la speculazione finanziaria sul prezzo dei cereali. Un sistema in cui la tutela ambientale è vista come un fastidioso ostacolo alla “produttività”, salvo poi tradursi in fenomeni come la siccità nella quale siamo ancora immersi, o come “eventi estremi” sempre più frequenti, che abbattono le produzioni (e i produttori) in modo drammatico. 

Oltre il 60% dei cereali in Europa finisce negli allevamenti intensivi

Ci sono però alcuni ingranaggi in questo meccanismo così complesso dai quali partire per costruire un sistema agroalimentare più sostenibile, più equo e più sicuro. 

Una parte importante ruota intorno alla zootecnia, sulla base di dati oggettivi: oltre il 60% dei cereali commercializzati in Europa non è destinato a diventare pane o pasta, ma mangime per gli allevamenti intensivi

La produzione di carne 

Sows in the small, narrow gestation cages at factory farms for pigs

Allo stesso scopo vengono utilizzati circa ⅔ dei terreni agricoli europei, con relativo consumo irriguo e circa ⅔ dei fondi comunitari della Politica Agricola Comune finanziano l’attuale sistema di produzione di carne e latticini in Europa. 

Il tutto per sostenere un consumo di carne che in Europa (e in Italia) è circa il doppio della media mondiale, mentre gli scienziati ne raccomandano una riduzione drastica (il 70% entro il 2030) per proteggere la salute pubblica, l’ambiente e il clima, a causa degli impatti che la zootecnia intensiva ha sul Pianeta.

Cosa dovremmo fare per mangiare meglio

Sulla base di questi numeri, lo spauracchio di una riduzione delle produzioni a causa delle misure ambientali contenute nella Farm to Fork (“costola agricola” del Green Deal), agitato anche in questa campagna elettorale da una parte di associazioni di categoria e di forze politiche, assume contorni diversi. Da un lato perché le cause della riduzione di alcune produzioni vanno ricercate proprio nella mancata tutela dell’ambiente e della salute dei suoli, dovuta ad un sistema agricolo intensivo e fortemente basato su input esterni come fertilizzanti e pesticidi di sintesi, che ha già da tempo iniziato a presentare il conto. Dall’altro perché il mantra di aumentare le produzioni ad ogni costo non affronta una domanda cruciale: a quale scopo?

Come usiamo l’acqua?

 In una fase in cui in tutti i campi si impone un utilizzo misurato di risorse naturali sempre più scarse, è doveroso chiederci se ha senso utilizzare la maggior parte dei terreni agricoli e delle riserve irrigue (pensiamo alle monocolture di mais), compromettendone gli equilibri naturali, per promuovere un consumo eccessivo di prodotti animali o per conquistare nuovi mercati  (anche qui, con l’aiuto di fondi pubblici) nei quali esportare prodotti che spesso non fanno parte della dieta originale di quei Paesi o che sono a beneficio solo della fasce sociali più ricche della popolazione.

Stock image of maize, a typical crop grown in North Germany. Mais.

L’efficienza alimentare

Una nuova “efficienza alimentare” dovrebbe invece basarsi su diete maggiormente a base vegetale e su una riduzione del numero di animali allevati, alleggerendo così la pressione sulla produttività dei suoli agricoli che potrebbero essere coltivati per il consumo diretto umano, invece che per quello animale, con tecniche più rispettose dell’ambiente che ne garantiscano la resilienza ad eventi climatici sempre più estremi.

Un calcolo di Greenpeace ha ad esempio stimato che sarebbe sufficiente una riduzione di appena l’8% dell’uso di cereali attualmente destinati a diventare mangime in Unione europea, per rendere immediatamente disponibili 13 milioni di tonnellate di frumento, in grado di compensare  la metà di tutta la produzione Ucraina.

I 10 punti per la transizione ecologica del sistema agroalimentare

Di seguito elenchiamo i punti  che, su queste basi,  dovrebbero essere al centro dei programmi e di un serio dibattito elettorale, per affrontare il diritto al cibo e la transizione ecologica del nostro sistema agroalimentare, troppo spesso nominata in modo vago o delegata a false soluzioni. 

Ma gli stessi punti sono anche al centro della tutela dei produttori e del lavoro agricolo, schiacciati tra crisi geopolitica, cambiamenti climatici e regole di mercato che li spingono a produrre sempre di più, a prezzi sempre più bassi. E’ quindi particolarmente condivisibile l’appello dei FFF al mondo agricolo per scendere in piazza insieme in occasione del climate strike il prossimo 23 settembre: perché non può esserci agricoltura sana in un ambiente malato. 

I 10 PUNTI DI GREENPEACE PER IL DIRITTO AL CIBO SANO E SOSTENIBILE

RICONVERSIONE DEGLI ALLEVAMENTI INTENSIVI, CON RIDUZIONE DEL 50% DEGLI ANIMALI ALLEVATI E DEGLI IMPATTI AMBIENTALI

Non destinare più sussidi agli allevamenti intensivi a meno che questi non siano vincolati a efficaci misure di riduzione degli impatti ambientali, a partire dalla riduzione delle consistenze zootecniche.

Un’immediata moratoria sull’aumento del numero dei capi allevati a partire dalle province con maggiore densità di UBA (Unità di Bovino adulto) per km²

Ridurre del 50% il numero di animali allevati al 2050, usando i fondi pubblici già destinati al settore zootecnico per apposite misure che accompagnino il settore in questa transizione.

Non destinare fondi pubblici a campagne promozionali che incoraggino il consumo di prodotti di origine animale provenienti da allevamenti intensivi ma adottare misure che favoriscano l’adozione di diete più ricche di alimenti di origine vegetale e meno di carne e prodotti lattiero-caseari, anche attraverso meccanismi di sostegno pubblico e di regolazione dei prezzi che rendano ampiamente disponibili e accessibili per tutta la popolazione alimenti sani, ecologici e di origine vegetale.

Migliorare l’attuale proposta di certificazione volontaria sul benessere animale in modo da veicolare informazioni chiare e corrette ai consumatori e poter accompagnare efficacemente la transizione verso sistemi di allevamento più rispettosi del benessere animale. Una certificazione con standard poco ambiziosi e senza un adeguato numero di livelli, soprattutto al coperto, non permetterebbe l’effettiva transizione agli allevatori che, volontariamente, scelgono questo percorso, sarebbe un inganno per i cittadini-consumatori e un boomerang per le piccole, medie e grandi aziende italiane di qualità.

PROMOZIONE DELL’AGRICOLTURA BIOLOGICA E TUTELA DELLA BIODIVERSITA’ AGRICOLA

Drastico incremento di pratiche biologiche e agroecologiche per arrivare ad avere almeno il 40% di superficie agricola dedicata all’agricoltura biologica entro il 2030

Raggiungere e superare l’obiettivo del 10% delle aree agricole da destinare alla tutela della biodiversità indicato dalla Strategia Europea Biodiversità 2030, senza ulteriori deroghe sulle norme ambientali della condizionalità della PAC, che prevede l’obbligo di rotazione delle colture e il mantenimento di aree naturali o con caratteristiche non produttive. 

Adottare misure finalizzate al risparmio e alla tutela della risorsa idrica in agricoltura, anche attraverso una pianificazione che riduca l’estensione delle colture più idroesigenti, in particolare se destinate alla filiera mangimistica e non al consumo diretto umano. 

Fissare obiettivi vincolanti per ridurre la quantità di pesticidi di sintesi del 50% entro il 2025 e dell’80% entro il 2030, compreso il divieto degli erbicidi a base di glifosato;

 Nessuna deregolamentazione dei cosiddetti “nuovi” OGM. Tutte le nuove tecnologie (gene-editing, TEA, NGT), devono sottostare alle attuali norme UE sugli OGM e conseguente solida valutazione del rischio, tracciabilità ed etichettatura, al fine di evitare conseguenze incontrollabili  dal punto di vista ambientale, sociale, sanitario e finanziario. Le cosiddette nuove tecniche di modifica genetica consentono di apportare modifiche significative agli organismi, modifiche non presenti in natura e fondamentalmente diverse dalle tecniche di selezione tradizionali. Le evidenze che le nuove tecniche OGM possono avere effetti non voluti e imprevisti sono in aumento e un loro rilascio in ambiente non permetterebbe una coesistenza con coltivazioni biologiche o convenzionali.