Cosa pensano i cittadini italiani ed europei degli impatti della produzione intensiva di carne? E quali scelte vorrebbero che le istituzioni facessero sulle politiche di promozione del consumo di carne? Un sondaggio commissionato da Greenpeace Francia e realizzato in otto Paesi europei, inclusa l’Italia, prova a rispondere a queste domande, con risultati in parte sorprendenti e in controtendenza rispetto ad alcuni sondaggi diffusi dalle organizzazioni del settore zootecnico. 

Mentre la Commissione europea sta valutando se continuare a finanziare campagne pubblicitarie che includono prodotti a base di carne nell’ambito della politica di promozione dei prodotti agricoli (per i quali negli ultimi cinque anni sono stati spesi 143 milioni di euro di fondi comunitari), solo il 22 per cento dei cittadini europei ritiene si debba continuare a farlo, mentre il 51 per cento degli intervistati ritiene che questo tipo di finanziamenti non debba più essere erogato. In pratica più di un cittadino europeo su due pensa che non sia giusto finanziare con fondi pubblici campagne che promuovono il consumo di carne, e anche i cittadini italiani hanno risposto nello stesso modo.

La posizione italiana è ancora più netta di quella europea.

Nel nostro Paese, infatti, il 53 per cento ritiene che i governi europei e quelli nazionali dovrebbero adottare misure per fare sì che venga prodotta meno carne, proprio a causa degli impatti ambientali e sanitari della produzione intensiva, e solo il 23 per cento sarebbe contrario a questi interventi, a fronte di un 30 per cento di contrari in Europa. In Italia, il 58 per cento degli intervistati pensa inoltre che sarebbero opportune misure per ridurre il consumo di carne, e solo il 18 per cento sarebbe contrario. La posizione italiana è più netta della media europea, che vede un 48 per cento di favorevoli e un 27 per cento di contrari.

Cosa pensano le persone della produzione intensiva di carne

I cittadini europei sono abbastanza consapevoli degli impatti ambientali della produzione intensiva di carne, ormai scientificamente riconosciuti. Tanto basta per far sorgere qualche preoccupazione e domande tra i cittadini sulle scelte di finanziamento che si stanno compiendo in campo agroalimentare. Dal nostro sondaggio emerge che circa un cittadino europeo su due riconosce gli impatti sul clima (52 per cento), sulle foreste e sulla natura (50 per cento) e sulla qualità dell’acqua e dell’aria (54 per cento), mentre una maggiore consapevolezza si registra per gli impatti sulla salute umana (60 per cento) e sul benessere degli animali allevati (68 per cento).

In Italia, rispetto alla media europea, c’è un livello di consapevolezza più alto rispetto agli impatti sulla salute (71 per cento) e sul benessere animale (72 per cento), e leggermente più basso rispetto agli impatti sul clima (49 per cento).

Produrre meno carne per garantire la sicurezza alimentare 

Gli impatti della produzione intensiva di carne sulla crisi climatica, anche se mediamente conosciuti, sono già un motivo più che sufficiente per produrre e mangiare meno carne, ma la guerra in Ucraina ha messo in ulteriore evidenza un altro aspetto su cui il settore zootecnico ha un impatto: quello della sicurezza alimentare. 

L’Ucraina è un importante esportatore di cereali a livello europeo e la preoccupazione per la loro disponibilità ha innescato da un lato forti dinamiche speculative e dall’altro pone degli interrogativi su come vengono utilizzate le risorse europee. Più del 60 per cento dei cereali commercializzati in Europa è destinato all’alimentazione animale, e solo il 22 per cento per quella delle persone; secondo i nostri calcoli, con una riduzione dell’8% degli animali allevati in Unione Europea potremmo risparmiare abbastanza frumento da compensare il deficit previsto in Ucraina a seguito dell’invasione russa.

In questo contesto è particolarmente grave che l’UE e i governi nazionali continuino a spendere i soldi dei contribuenti per far crescere il consumo di carne e sistemi di produzione intensiva che, di fatto, sottraggono risorse naturali ed alimentari al consumo diretto umano. Produrre e mangiare meno carne è meglio per la nostra salute, per l’ambiente, per il clima ed è il modo più semplice per assicurare che ci sia cibo per tutti.

Il futuro dell’agricoltura tra guerra e siccità

La siccità e la situazione geopolitica mostrano con estrema chiarezza l’urgenza di orientarsi, anche in Italia, verso un’agricoltura meno dipendente da input esterni, più in equilibrio con la natura e, per questo, più resiliente a eventi climatici estremi ormai sempre più frequenti. Questi devono essere i pilastri del Piano Nazionale Strategico della PAC post 2020, sul quale il Ministero dell’Agricoltura sta lavorando per giungere alla versione finale da inviare alla Commissione europea entro fine luglio. 

Un Piano che, secondo le osservazioni ricevute dalla stessa Commissione, non affronta con l’efficacia necessaria le questioni ambientali, e anzi rischia di promuovere interventi potenzialmente dannosi, come l’intensificazione dell’allevamento o sostegni che comportino un aumento delle superfici irrigue, come l’Italia rischia di fare con la coltivazione del mais (in gran parte destinato alla zootecnia). Preoccupa anche l’intenzione di sfruttare i terreni a riposo, che sono invece fondamentali per la salute dei territori agricoli, sulla scia di “deroghe” alle misure ambientali tese ad intensificare le produzioni agricole in risposta alla crisi bellica, la cui efficacia è dubbia, ma i cui effetti dannosi per l’ambiente e di conseguenza per l’agricoltura stessa sono piuttosto certi. 

In questo momento più che mai è necessario compiere scelte politiche che sappiano guardare lontano, e che le istituzioni e le associazioni di categoria comprendano che le misure ambientali non sono un ostacolo alla produzione agricola ma, anzi, sono uno strumento per garantirne la sopravvivenza, minacciata da siccità e cambiamenti climatici

Per questo Greenpeace, insieme a  molte associazioni, sta chiedendo al ministro Stefano Patuanelli di convocare urgentemente il tavolo di partenariato, all’interno del quale realtà produttive, sociali e mondo ambientalista possano, con pari dignità, disegnare un futuro realmente sostenibile dell’agricoltura italiana.