Guerra e siccità. Sono parole che richiamano calamità bibliche, solitamente associate a popoli e terre lontani da noi, ma che mai come in questi mesi sono entrate nella nostra realtà, al punto di influenzare il presente, e soprattutto il futuro, della nostra agricoltura e quindi della nostra alimentazione.

La tragica guerra in corso nel cuore dell’Europa ha messo in allarme il settore alimentare in seguito al blocco delle esportazioni dall’Ucraina, anche se i dati mostrano che il nostro Paese non rischia una reale carenza di cibo, ma principalmente una minore disponibilità di mais per il settore zootecnico, aggravata dalla siccità nel nostro Paese.

L’Italia, in particolare in alcune zone del Nord in cui si concentra la produzione agricola e zootecnica, sta infatti fronteggiando una carenza idrica senza precedenti. Secondo l’ANBI, in Lombardia le riserve idriche sono al 40% della media storica, mentre in Emilia Romagna le falde normalmente accessibili alle colture segnano fino a un 200% in meno rispetto alle medie stagionali. Alcune province stanno permettendo il prelievo per fini agricoli dai corsi d’acqua superficiali in deroga al principio del deflusso minimo vitale, che prevede che i prelievi non debbano superare certe soglie per mantenere l’equilibrio ecologico del fiume. In Veneto e Piemonte la situazione non è migliore, con una carenza idrica che colpisce addirittura alcuni piccoli paesi montani, in cui il disgelo dello scarso manto nevoso non ricarica le falde come servirebbe. 

Quando l’agricoltura alimenta la siccità

Alcune organizzazioni di categoria stimano un miliardo di euro di danni all’agricoltura causati dalla siccità di questi mesi, mentre la comunità scientifica avverte già da qualche anno che circa il 20% del territorio italiano rischia di diventare incoltivabile a causa del progressivo inaridimento e impoverimento dei suoli.

L’agricoltura è infatti il settore che ha più bisogno di più acqua dolce: in Europa il consumo si attesta intorno al 59% e l’Italia è il secondo Paese europeo (dopo la Spagna) che fa più  ricorso all’irrigazione per le proprie coltivazioni. La maggior parte della superficie irrigata si trova proprio nel Nord flagellato dalla siccità: secondo ISTAT, le quattro Regioni padane totalizzano insieme il 58% del totale, con un 20% nella sola Lombardia. 

Questo dipende senz’altro dalle ampie estensioni di superficie coltivata presenti in queste Regioni, ma anche dal tipo di coltivazioni: esistono colture con un fabbisogno idrico ridotto, come il frumento duro sviluppato maggiormente nel Mezzogiorno, mentre il mais, presente principalmente in Pianura Padana, ha un elevato fabbisogno idrico ed è la seconda coltivazione italiana, dopo il riso, per volumi irrigui utilizzati (circa il 20% del volume totale).

Ed è proprio sul mais che, oltre all’allarme guerra, suona l’allarme siccità: la Confederazione Italiana Agricoltori (CIA) avverte che la resa del mais potrebbe essere così bassa per via dei terreni aridi da rendere addirittura non conveniente la trebbiatura.

Il Presidente di Coldiretti afferma invece che coltivando 200 mila ettari in più, ovvero i terreni finora lasciati a riposo, potrebbe essere garantita una “produzione aggiuntiva di circa 15 milioni di quintali di mais per gli allevamenti, di grano duro per la pasta e tenero per la panificazione” per sopperire alle mancate importazioni dall’Ucraina.

Qualcosa però non torna nelle stime di Coldiretti: il problema infatti non è tanto ampliare le superfici coltivabili, ma il fatto che la siccità mette a rischio anche le superfici già coltivate, senza contare che sacrificare i terreni a riposo rischia di compromettere la biodiversità e la salute delle aree agricole. La stessa Commissione Europea, nelle sue osservazioni al piano nazionale italiano sulla futura politica agricola, mette in guardia dal proporre interventi che comportino “un aumento delle superfici irrigue”, proprio per tutelare la preziosa e sempre più scarsa risorsa idrica.

Cambiare il modo di produrre e consumare anziché aumentare le produzioni

Le immagini mostrano il livello dei fiumi nei pressi del Ponte Della Becca (Italia)

La domanda da porsi allora forse è un’altra: è davvero necessario aumentare la produzione e rinunciare alle tutele ambientali, visto che in questo modo si finirebbe per consumare ancora più acqua, alimentando la siccità e i cambiamenti climatici, anziché rendere la nostra agricoltura più resiliente e meno dipendente da input esterni? 

Proviamo anche in questo caso a seguire il nostro chicco di mais, tanto piccolo quanto centrale. Secondo ISMEA, il settore zootecnico-mangimistico assorbe la gran parte della disponibilità nazionale di mais, così come del mais di importazione, ai quali si aggiungono altri cereali ad uso mangimistico: si stima che il 62% dei cereali utilizzati in Europa sia destinato agli allevamenti. In sintesi, le grandi lobby agricole europee e italiane vorrebbero indebolire o ritardare ulteriormente gli obiettivi ambientali legati al Green Deal europeo – proprio mentre un evento climatico estremo come la siccità si mostra in tutta la sua potenza – per mantenere gli attuali livelli di produzione e consumo di carne, che la scienza già da anni indica come eccessivi e insostenibili. Una scelta che appare suicida non solo per il Pianeta, ma anche e soprattutto per gli stessi agricoltori, prime vittime dei cambiamenti climatici. 

Una soluzione alternativa per sopperire le carenze determinate dalla guerra in realtà ci sarebbe, e Greenpeace l’ha indicata alla Commissione Europea, insieme a un set di 7 richieste. Tra queste la più immediata indica di ridurre subito del 10% le consistenze zootecniche europee, per destinare una maggiore quantità di cereali al consumo umano e più terreni agricoli alla produzione di cibo, piuttosto che a coltivazioni per la zootecnia ad alta domanda idrica. Queste sono le proposte che Greenpeace ha ribadito al Ministro Patuanelli durante il tavolo istituzionale del 19 aprile, insieme alla richiesta di non rimandare l’entrata in vigore della nuova PAC, ma piuttosto di rafforzare le misure ambientali e accelerare la necessaria transizione ecologica del settore