Tanti anni fa, persone potenti che avevano capito che l’era del petrolio “convenzionale” era ormai agli sgoccioli, cominciarono a “sveltire” le pratiche per trivellare il fondo marino, col presupposto che le trivellazioni offshore fossero sicure e non creassero problemi. Un noto incidente nel Golfo del Messico, nell’aprile 2010, mise fine a questa bugia, svelando al mondo intero i rischi delle trivellazioni in mare.

Lotte territoriali, referendum boicottati dal governo di turno, proposte di divieto degli airgun (gli infernali sistemi di mappatura dei fondali) hanno portato nel 2019 alla decisione di redigere un “piano delle aree” del Bel paese che avrebbe dovuto individuare le zone idonee allo sfruttamento degli idrocarburi, definendo dove si possono cercare o estrarre idrocarburi e dove invece non è possibile.

Il PiTESAI (Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee) fa dunque pensare a una mappa, qualcosa di simile alla famigerata CNAPI, la carta che include i possibili siti in cui (teoricamente) si potrebbe localizzare il “deposito unico nucleare”, per ammassare e gestire le scorie radioattive italiane. Ipotesi ragionevole ma, come vedremo, inesatta.

In attesa di questa “cartografia” (formalmente: “quadro definito di riferimento delle aree”), le attività di ricerca di nuovi depositi di idrocarburi sono state sospese per un periodo che ha subito varie proroghe, anche a causa dei ritardi nella realizzazione del PiTESAI. La scadenza adesso è per la fine di settembre, quando il PiTESAI dovrebbe vedere la luce. Potete scaricarlo dal sito del Ministero della Transizione Ecologica, che ha avviato il processo di Valutazione Ambientale Strategica (VAS).

Come lettura, però, è francamente deludente: tante cose non quadrano, a cominciare da una tempistica alquanto sospetta. È forte l’impressione che si confidi nella forza del “generale agosto” per limitare ancor di più i margini di riflessione e partecipazione (finora negata alle associazioni). La scadenza delle osservazioni è fissata infatti a metà settembre e, in teoria, il PiTESAI dovrebbe essere formalmente adottato alla fine del mese. Come margine di partecipazione non è granché.

L’altra cosa che stupisce è che di “cartografie”, di “aree precluse” o “aree vocate”, insomma di tutto quello che ci si aspetta da un piano delle aree… praticamente non c’è nulla. Delle 183 pagine della “proposta di Piano” (allegati esclusi) almeno metà non ha nulla a che fare con il PiTESAI. Si va da una descrizione dei processi di autorizzazione, alla spiegazione di cosa sono le trivellazioni, passando per vari ragionamenti sulla spesso rinviata dismissione delle piattaforme inutilizzate, con un passaggio che – ad esempio secondo quanto ricostruisce il Fatto Quotidiano – potrebbe portare a un via libera per il CCS, ovvero la cattura e lo stoccaggio della CO2 che Eni vorrebbe promuovere come (falsa) soluzione alla crisi climatica. Ma il “Piano”, quindi, dov’è?

A parte il contorno, la “sostanza” sta in gran parte in una singola mega-tabella che comincia a pagina 34 e finisce a pagina 67. Nella tabella c’è un elenco di “criteri” sulla base dei quali si devono, o si dovrebbero, definire i limiti alle attività di trivellazione. È ben vero che una colonna è dedicata alla possibilità che il criterio possa essere “cartografato” (non tutti i criteri lo sono), ma le carte (le mappe) non ci sono. Da nessuna parte.

Ci sono criteri che, pare di capire, comportano la totale esclusione delle aree, e non a caso il criterio n° 1 riguarda il noto divieto di trivellare entro le aree marine protette e nel tratto di mare entro le 12 miglia da esse. Criterio peraltro totalmente ignorato dal recente decreto di VIA del ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, che ha dato una valutazione ambientale positiva alla concessione “Teodorico”, la quale si trova a meno di 12 metri (non miglia, metri) da un sito Natura 2000 (la rete di aree protette ai sensi di un paio di direttive EU). Nel citato “criterio n. 1” anche questo tipo di siti è considerato a tutti gli effetti un’area marina protetta. Ovvio che ci sono due pesi e due misure per la proposta di PiTESAI e per i decreti VIA che il ministro firma. Vatti a fidare dunque del PiTESAI…

A parte questa vicenda, la lettura dei criteri fa sorgere altri dubbi. Ad esempio: per i siti Natura 2000 a mare “vale” il concetto che ci deve essere una ragionevole distanza dalle trivelle. Per gli altri siti Natura 2000 la cosa è data come “possibile”, ma in realtà non c’è alcuna conclusione al riguardo. La “proposta di PiTESAI” non propone. Insomma, il PiTESAI, non lo sa.

Come sembra ignorare che in mare ci sono altre attività che dipendono dal buono stato di questo ecosistema. Il turismo, per esempio: davvero pensiamo di incentivarlo trivellando un altro po’ i nostri mari? Con quale criterio si decide quali aree “valgono” in termini di turismo e quali no? Anche questo, non si sa.

E poi c’è la pesca: qui, nel tabellone dei criteri, c’è davvero un buco nero. È vero, si parla di “aree con elevata attività di pesca” e di aree dove si potrebbero installare impianti di maricoltura, ma davvero per il nostro governo la gestione delle risorse del mare è questo? Gli animali che da millenni peschiamo (e che da decenni sovra-peschiamo) non nascono “a casaccio”. Non vivono una vita alla mercé dei flutti. Sono parte del grande respiro del mare e nascono, e crescono, in aree ben precise.

Giusto per fare un esempio, qualche anno fa abbiamo preparato un report contro i progetti per gli airgun in Adriatico e usato dei dati (pubblici) sulla localizzazione delle aree di riproduzione (spawning: dove si depongono le uova; nursery: dove crescono i giovanili), limitandoci a considerare solo 13 specie di interesse commerciale. Mettendo assieme tutte queste aree, resta fuori ben poco, nel Mare Adriatico. E sono solo tredici specie. Il sito del Mercato ittico di Chioggia elenca ben sessanta specie di pesci (più i ricci di mare!), senza considerare molluschi e crostacei.

Quindi, il PiTESAI non sa decidere cosa (e dove) salvare e cosa no. Non sa che ci deve dire quale altro pezzo del nostro mare vogliamo, ancora, condannare e quale salvare. Non sa neanche che il clima è cambiato per colpa di quei combustibili fossili che continuiamo a voler estrarre. Non sa che c’è molta più occupazione (certo: meno profitti per i petrolieri) puntando sulle fonti rinnovabili. Non sa, il PiTESAI, che non abbiamo più tanto tempo.

Più che un PiTESAI è un PiTE-non-SAI. Noi, invece, sappiamo benissimo che è l’ora di darci un taglio e di finirla con queste stramaledette trivelle che stanno condannando noi e il Pianeta.