Nessun piano di transizione ecologica che sia serio può prevedere nuovi progetti per l’estrazione di idrocarburi e ulteriori finanziamenti ai giganti delle fossili. Ecco perché auspichiamo che questo nuovo governo ponga uno stop definitivo alle trivellazioni nel nostro Paese.

Quello di cui l’Italia ha bisogno per rispettare gli Accordi di Parigi, e avviare un vero percorso di decarbonizzazione, non sono continui rinvii, ma una legge che stabilisca un termine ultimo alla validità delle concessioni per l’estrazione di idrocarburi al massimo entro il 2040, come fatto in Francia. Un provvedimento che preveda, di conseguenza, un fermo immediato delle autorizzazioni per le attività di ricerca e prospezione degli idrocarburi.

Non più moratorie a “termine”

Lo stop temporaneo a queste attività era stato sancito dal primo governo Conte, dopo la protesta di diverse associazioni, sollevatasi a fine 2018, per il rilascio di nuove autorizzazioni per prospezioni. Invece di un fermo definitivo alle trivellazioni, come sbandierato in campagna elettorale, si era optato per un provvedimento che ha rinviato il problema invece di risolverlo.

La moratoria entrata in vigore il 12 febbraio 2019 dava infatti 18 mesi di tempo per sviluppare un Piano per la Transizione Energetica delle Aree Idonee (PiTESAI), che definisse sulla mappa le aree escluse da questo tipo di attività e 24 mesi di fermo per tutti i permessi di prospezione e ricerca, a terra e in mare. A dicembre 2020, davanti a un nulla di fatto – con i lavori per la redazione di un PiTESAI nemmeno iniziati – i termini della moratoria venivano allungati. Un nuovo tentativo per guadagnare tempo, ma per che cosa?

Ed eccoci quindi alla scadenza della suddetta moratoria, avvenuta il 13 febbraio. Nel frattempo, nessuna norma che fermi davvero le trivelle è stata però approvata e nessun PiTESAI è stato presentato. Al suo posto solo un rapporto preliminare.

Così, per salvarci dall’incombenza delle trivelle – sono oltre 90 i progetti che in assenza di un piano sarebbero ripartiti ad agosto – si è votata ieri in extremis alla Camera, nel decreto Milleproroghe, l’ennesima proroga che rinvia nuovamente i giochi di 7 mesi, dando tempo fino a settembre 2021 per presentare l’ormai famoso piano.

Per farci cosa? A voler fare due calcoli al volo, per passare dalle prospezioni all’effettiva estrazione di idrocarburi ci vogliono tra i 5 e i 10 anni. Quindi, il primo olio (o gas) sgorgherebbe, a voler essere mediamente “ottimisti”, nel 2027-28. Domanda: quanto a lungo durerebbero queste “estrazioni”? L’esperienza ci dice che queste piattaforme tendono a restare in mare decenni: ce ne sono alcune che hanno quasi sessant’anni. Da un lato, ovvio che l’azienda deve rientrare degli investimenti e mira a far profitti: sfrutta il giacimento fin che può (i costi dell’impatto sul clima non si contano, sui bilanci). Dall’altro, procrastinare, mantenendo a mare impianti obsoleti e sostanzialmente inattivi, serve pure a non smantellare e bonificare le aree date in concessione che dovrebbero esser restituite nelle medesime condizioni precedenti alle estrazioni. Di promesse di smantellamento e bonifica gettate al macero, ne abbiamo già viste.

Guardiamo avanti

Autorizzare oggi nuovi progetti significa aggiungere nuove trivelle alle troppe che sono già in mare (alcune attive, altre non smantellate perché costa), con buona pace di ogni seria idea di decarbonizzazione. Nuove prospezioni e estrazioni semplicemente non hanno senso perché sono comunque fuori tempo massimo.

Come in ogni periodo di crisi, bisogna scegliere e senza ipocrisia. Sappiamo bene che l’Italia non può soddisfare i propri fabbisogni energetici estraendo petrolio e gas: le riserve di petrolio stimate sotto i nostri fondali marini coprirebbero il fabbisogno nazionale solo per 7 settimane, quelle di gas per circa 6 mesi. In nome di quale beneficio quindi dovrebbero essere permesse nuove trivellazioni mettendo ancora più a rischio il clima e i nostri mari?

Vogliamo parlare di occupazione? Una riconversione energetica nel nostro Paese non farebbe bene solo a clima e ambiente, ma anche a economia e lavoro. Secondo il nostro studio Italia 1.5, potrebbe infatti portare entro il 2030 alla creazione di 163 mila posti di lavoro, ovvero un aumento dell’occupazione diretta nel settore energetico pari al 65 per cento circa.

Il Presidente Draghi ha detto chiaramente che “sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi.” Ecco, se vogliamo vincere la sfida climatica che abbiamo davanti, il governo non può che puntare a una rapida e giusta transizione energetica, che metta fine alle estrazioni di idrocarburi.

Greenpeace activists display a huge banner reading “Stop drilling – yesterday, today, tomorrow”.
Basta investire su petrolio, gas e carbone!

Alluvioni, incendi, siccità: mentre la vita sul Pianeta è sconvolta da eventi estremi causati dai cambiamenti climatici, i principali istituti finanziari, di credito e assicurativi continuano a investire nel settore dei combustibili fossili e a finanziare chi inquina, gettando benzina sul fuoco della crisi climatica. Se vogliamo limitare le conseguenze dei cambiamenti climatici e salvare 1 milione di specie a rischio dobbiamo ascoltare la scienza e tagliare subito i finanziamenti all’espansione di gas, petrolio e carbone. Chiedi alle banche e alle compagnie di fare la loro parte nella lotta all’emergenza climatica: basta finanziamenti che distruggono il Pianeta!

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