Un nuovo rapporto sulle attività di esplorazione ed estrazione di gas e petrolio di ENI mostra come, dei 767 progetti in cui è attualmente coinvolta a livello globale la multinazionale italiana, ben 552 abbiano iniziato (o inizieranno) a estrarre fonti fossili dopo l’Accordo sul clima di Parigi, raggiunto del 2015. Per novantasei di questi progetti hanno addirittura acquisito la licenza dopo quella data. 

Lo scarso interesse di ENI per la tutela ambientale, malgrado il continuo ricorrere al greenwashing, è dimostrato anche dal fatto che dei 767 progetti in cui l’azienda è coinvolta, ben 56 si trovano all’interno di un’area protetta (con Italia, Regno Unito e Paesi Bassi in testa). Se si prendono in considerazione i 17 Paesi in cui le emissioni totali dei progetti partecipati da ENI sono più elevate, 27 asset sono situati all’interno di un’area protetta e 151 a meno di 10 chilometri, costituendo una potenziale minaccia per la biodiversità.

Secondo quanto raccolto da Greenpeace Italia, inoltre, il 70% di questi 17 Paesi è governato da regimi non democratici, cioè “autoritari” o “ibridi” secondo il Democracy Index; per il 76% si tratta di Paesi in cui il livello di pace è “molto basso”, “basso” o “medio” secondo il Global Peace Index; il 70% sono Paesi nei quali le violazioni dei diritti dei lavoratori sono “regolari”, se non “sistematiche” o addirittura in un contesto di “nessuna garanzia dei diritti” secondo il Global Right Index, e per il 70% si tratta di Paesi al di sotto della media mondiale in termini di corruzione percepita secondo il Corruption Perceptions Index. In particolare, si segnalano le licenze ottenute da ENI nelle acque al largo della Striscia di Gaza nelle prime settimane dei bombardamenti israeliani.

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