L'ultimo disastro petrolifero di cui abbiamo notizia (di troppi non sappiamo nulla) si sta consumando in queste ore in Israele dove, per una falla all'oleodotto della Eilat Ashkelon Pipeline Company (EAPC), è stata contaminata la riserva naturale a Evrona, non lontano dalla costa di Eilat.

Secondo il ministero dell'Ambiente israeliano ci vorranno anni per riparare i danni e speriamo che non siano minacciate le barriere coralline del Mar Rosso: Eilat è una rinomata stazione balneare, famosa per le attività subacquee.

Eppure, continuano a dirci che petrolio, petroliere e piattaforme petrolifere sono amiche dell'ambiente: così tanto amiche, da volerne piazzare a centinaia nei nostri mari.

Per questo mi torna in mente un surreale incontro cui ho avuto il piacere di essere invitato dal Ministero dell'Ambiente. Incontro organizzato per discutere della cosiddetta "Strategia Marina" (Livorno, 14 novembre 2014), ovvero dell'applicazione in Italia della Direttiva Quadro 56/2008/UE per una Strategia Marina Europea.

L'idea sarebbe quella di garantire, entro la fine del decennio, il raggiungimento del "buono stato dell'ambiente marino": ottima idea, sulla carta. Se definire cosa sia un "buono stato" del mare è difficile, pensare di arrivarci senza considerare gli impatti generati - e ricevuti - da attività rilevanti come la pesca pare già piuttosto arduo. Ma le cose diventano davvero problematiche quando ci si accorge che sul mare di strategie ne esistono altre, che del suddetto "buono stato" francamente non paiono troppo curarsi.

Per questo mi ha fatto un certo effetto essere invitato dal Ministero dell'Ambiente a parlare di strategia marina, soprattutto se a pochi giorni dal varo della micidiale Legge "Sblocca Italia" (Legge 164/2014). I punti dolenti di questo provvedimento sono molti, ma l'articolo 38 - il cosiddetto "Sblocca Trivelle" - spicca come elemento ovviamente incompatibile con la Strategia Marina dell'UE. Al contempo però si integra perfettamente con quella che possiamo chiamare la "strategia della trivella".

Come ogni buona strategia, la "strategia della trivella" è partita da lontano: per la precisione con l'art.1 del D.Lgsl.l. 238/2005, che ha tirato fuori dalla categoria di impianti a rischio di incidente rilevante le piattaforme petrolifere: oggi, per le valutazioni di impatto ambientale delle trivellazioni, al massimo si considerano i rischi di uno sversamento di pochi litri di gasolio.

Al primo passo della strategia in questione è seguito un lento lavorio, arrivato a maturazione con la pubblicazione, il 26 aprile 2010, di un decreto ministeriale del MISE riguardante la "semplificazione" delle attività di ricerca e sfruttamento in mare di idrocarburi: peccato che il decreto sia stato pubblicato appena una settimana dopo il disastro della Deepwater Horizon, che a questa strategia ha assestato un brutto colpo. 

Quel disastro ci ha fatto scoprire infatti quello che stava per succedere nei nostri mari. E lo sdegno che ne è seguito ha portato al cosiddetto Decreto Prestigiacomo (Decreto 128/2010) che ha allontanato le trivelle dalle coste. Ovviamente, il petrolio della Deepwater Horizon continua ancora oggi a vagare nel Golfo del Messico (dove è stata localizzata una chiazza di oltre 3.200 kmq), ma fortunatamente per i petrolieri e i loro amici è sott'acqua, invisibile al grande pubblico.

Torniamo però al 2012, anno in cui il cosiddetto Decreto Passera (convertito il Legge n.134/2012) inaugura una sorta di condono per le trivelle: i limiti fissati dal decreto Prestigiacomo non valgono più per le richieste di concessione presentate prima. E siccome queste richieste coprivano praticamente ogni metro di costa "utile", i limiti imposti dal Decreto 128/2010 non valgono e basta. Ancora, a governo sfiduciato, alla vigilia dell'anno nuovo (il 27 dicembre 2012) ci viene regalato un decreto del MISE che allarga l'area in cui l'Italia può andare a cercare petrolio nello Stretto di Sicilia, ben più a sud dell'Isola di Malta (il cosiddetto "allargamento della zona C").

Ovviamente, Malta non si mostra contenta (a testimoniarlo, il sequestro di un paio di pescherecci siciliani nell'estate 2013), ma le cose si aggiustano con un viaggio del Primo Ministro Letta qualche mese dopo. Resta il fatto che parte della zona in questione era già stata reclamata dalla Libia (e su questo, al momento, nessuna nuova).

Stupisce (ma forse nemmeno tanto...) che quando abbiamo chiesto di realizzare nello Stretto di Sicilia una Zona di Protezione Ecologica (ai sensi della vigente Legge 61/2011) ci è stato risposto che prima bisogna mettersi d'accordo con Malta e Tunisia: ovvio che per il petrolio questo non vale.

D'altra parte, se bisogna scegliere tra le misure di tutela del mare e quelle utili ad accaparrarsi l'ultima goccia di petrolio (o gas) offshore, i nostri governi non hanno mai avuto dubbi.

Che si vari una norma come l'Art.38 della Legge "Sblocca Italia" n. 164/2014, infischiandosene della Direttiva "offshore" (Dir. UE 30/2013) che dovremmo recepire entro pochi mesi, non sorprende. Sorprende piuttosto che si continui a "perder tempo" straparlando di "Strategia Marina" e di "buono stato dell'ambiente". Leviamo di mezzo la "strategia delle trivelle" e poi ne riparliamo.

Alessandro Giannì - Direttore delle campagne Greenpeace Italia